sabato 3 dicembre 2011

Stracult e Stracotti - …ovvero la serie che questa settimana va su e quella che inevitabilmente va giù. Parola di Stargirl!

L’attesa, per tutti i fan di The Walking Dead, stavolta sarà davvero lunga:
bisognerà infatti aspettare fino al 14 febbraio per i nuovi episodi della seconda stagione. La settima puntata, forse la migliore di questa prima parte, sigla infatti la fine della prima metà della season 2, e per sapere cosa accadrà ora a Rick, Shane e compagnia bella, ci toccherà aspettare (e soffrire) un bel po’. Del resto però, la maggior parte di noi è abituata a restare col fiato sospeso se in passato ha seguito serie come Lost, Dexter e Breaking Bad, solo per citarne alcune che hanno suscitato e suscitano ancora grande pathos e suspense. Approfittando della lunga pausa, questa settimana, per la rubrica Stracult&Stracotti, anziché parlarvi del telefilm top e di quello down, abbiamo deciso di analizzare i punti di forza e i punti deboli della serie della Amc, per tirare le somme e fare il punto della situazione.

Decisamente top questo inizio stagione, capace di toccare le corde giuste e impeccabile nell’affrontare tematiche scottanti e mettere lo spettatore di fronte a una scelta, a mio avviso decisiva: schierarsi dalla parte di Rick o di Shane? Ora che le posizioni dei protagonisti sono chiare e ben delineate, non si tratta di una semplice preferenza del personaggio, quanto di un’intera visione del mondo. Scegliere se appoggiare l’uno o l’altro, significa optare per decisioni eticamente corrette ma rischiose, oppure meramente ciniche ma determinanti per sopravvivere. E voi da che parte state?
Episodi molto discorsivi e introspettivi hanno caratterizzato la serie in questi mesi, arricchendola notevolmente dal punto di vista della psicologia dei personaggi, e suscitando così maggior coinvolgimento da parte del pubblico, per mettere invece da parte la “guerra” con gli Erranti, utili per adesso soltanto a creare impatto visivo nel saltar fuori all’improvviso e regalare allo spettatore il tanto agognato salto sulla poltrona. The Walking Dead regala colpi di scena indimenticabili, emozioni che spaziano dalla paura vera a una genuina commozione, e genera una dipendenza cronica, grazie anche a una regia e a una fotografia a dir poco eccellenti, e a un cast compatto e omogeneo difficile da trovare in altre serie.

Nota dolente della prima metà di stagione, senza dubbio la lentezza che la contraddistingue, poiché non giova affatto all’evolvere della trama, malgrado sia una lentezza voluta, considerando le tematiche affrontate e il perenne conflitto vita-morte. Diciamocelo chiaramente: da quando Rick & Co. hanno varcato la soglia della fattoria, succede poco e niente! Nonostante ciò contribuisca a un’accurata e approfondita analisi di ogni singolo protagonista e implichi una maggior concentrazione sui rapporti di forza tra i personaggi, comporta però un rallentamento notevole della storyline principale, statica per tutta questa prima parte. Stracotti anche gli zombie nella seconda stagione: per ora se ne sono visti pochissimi, e nessuno autenticamente pericoloso. Nessuno, al di là di quelli incontrati da Otis e Shane, o la famiglia segregata nel fienile, sembra aver un ruolo attivo e risolutivo, e anche nel caso di quest’ultimi, vengono sterminati nel giro di pochi minuti.

A voi il giudizio… The Walking Dead: stracult o stracotto?



giovedì 1 dicembre 2011

NEWS - Altre Anteprimizie! "Person of Interest" da maggio su Premium Crime, la terza di "Vampire Diaries" da settembre su Mya
Altre anticipazioni sventolano sul pennone di Cologno Monzese. "Person of Interest" di J.J. Abrams andrà in onda su Premium Crime da maggio (si parla del 4). Un'aggiunta anche dalle parti di Mya: la terza stagione di "Vampire Diaries" è attesa a settembre. Come al solito, stay tuned!

mercoledì 30 novembre 2011

NEWS - Anteprimizie,"Alcatraz" di Abrams dal 30 gennaio su Premium Crime! A maggio Mya cala il tris: "2 Broke Girls", "Hart of Dixie" e "Suburgatory". "The Secret Circle" a settembre (sempre su Mya), "Smash" dal 19 febbraio. "Homeland" da febbraio su FoxCrime
E' stata decisa la data della partenza di "Alcatraz" di J.J. Abrams su Premium Crime: lunedì 30 gennaio. Nel frattempo Mya si candida ad essere il network più agguerrito, in termini telefilmici, sul fronte Mediaset (Premium). A settembre è in scaletta, il 4, "The Secret Circle", mentre già a maggio spara a raffica un tris di titoli da tenere d'occhio: "2 Broke Girls" e "Suburgatory" (entrambe il 4 maggio) e "Hart of Dixie" (31 maggio). Sempre il 31, parte l'ottava stagione di "One Tree Hill". Prima, a gennaio, sfilano "Covert Affairs" 2 (il 9), "Pretty Little Liars" 2 (il 17) e "Gossip Girl" 5 (il 24). "Smash" è al momento in palinsesto, sempre su Mya, il 19 febbraio 2012.
Sul fronte Sky, "Homeland" andrà in onda da febbraio su FoxCrime; sempre lo stesso mese toccherà alla settima di "Criminal Minds". Sullo stesso canale, la sesta stagione di "Dexter" inizierà dal 26 gennaio. Per chi volesse assistere alle anteprime di questo tris di serie ad alto tasso thriller, potrà gustarle in anteprima tra le nevi del Courmayeur Noir in Festival, dal 5 all'11 dicembre.

martedì 29 novembre 2011

NEWS - Ultima ora! "Smash" di Steven Spielberg da febbraio (la data del 12, detta in un primo tempo, è improbabile) su Mya
E' ufficiale, Mya si è aggiudicata la messa in onda di "Smash", una delle serie più attese della stagione, quella che qualche critico ha già etichettato come l'anti-Glee. La trasmissione è fissata per febbraio (probabilmente non il 12 come pubblicato in un primo tempo, forse la settimana dopo...). Sogni e aspirazioni di successo alla "Saranno famosi" con la firma di Steven Spielberg. Tra i protagonisti di punta, l'ex Grace Debra Messing, Anjelica Huston e l'esordiente Katharine McPhee (occhio a quest'ultima, a star is born...).


Vedi il maxi-trailer

lunedì 28 novembre 2011


NEWS - Alza la bandiera, Jennifer! La nipote di Missoni tiene alto il nome dell'Italia nei telefilm Usa (e nessuno ne parla, a parte il Tg Telefilm)
Si chiama Jennifer Goldie Diamante e di cognome fa Missoni. Nomen omen, verrebbe da dire, visto che è la nipote dello stilista Ottavio Missoni. Tuttavia la ragazza nata e cresciuta a Varese e poi espatriata in America si è fatta largo con le proprie braccia e le sue lunghissime gambe. Fin da ragazzina ha dimostrato un interesse spasmodico per l'equitazione e il pattinaggio su ghiaccio, gareggiando in entrambe le attività a livello agonistico, mentre l'esercizio fisico delle lezioni di danza jazz ha modellato il suo corpo fino alla perfezione. Dopo un passato da modella - è stata tra l'altro testimonial per due anni del profumo di Missoni - ha iniziato a 17 anni una carriera d'attrice attualmente in piena ascesa: da "Law&Order" a "Damages", da "Army Wives" al remake di "Melrose Place", da "Medium" a "Fringe", fino a "Royal Pains", "Gossip Girl" e "White Collar", i molteplici cameo seriali di Jennifer stanno tenendo alta la bandiera italiana a Hollywood (altro che Elisabetta Canalis!). Per chi non lo sapesse, è l'attrice italiana più intervistata sui tappeti rossi che contano nelle ultime stagioni (dagli Emmy Awards ai Golden Globes). Nel 2012 sarà curioso vedere l'attrice di buonissima famiglia al cinema in "Inferno", il film biografico incentrato sulla figura della pornostar Linda Lovelace, la protagonista del cult "Gola profonda". Al suo fianco nella pellicola, ci saranno Malin Akerman (nella parte dell'attrice a luci rosse al centro della pellicola) e l'ex pornostar Sasha Grey. Ad aprire le porte di Hollywood alla bella Jennifer, però, oltre al fascino indiscusso, è stata anche la perfetta conoscenza della lingua inglese imparata insieme al francese presso la Scuola Europea di Varese. Chapeau!

domenica 27 novembre 2011

L'EDICOLA DI LOU - Stralci e commenti sui telefilm dai giornali italiani e stranieri

Articolo tratto da "La Lettura", inserto culturale del CORRIERE DELLA SERA, del 25.11.2011


Se esce ancora un libro o un articolo che si piange addosso per la morte del romanzo, giuro che sottopongo l’autore alla cura Ludovico, quella di Arancia meccanica. Salvo che, al posto delle immagini di violenza e della Nona di Beethoven, gli proietto, con l’aiuto di mollette che lo costringano a tenere gli occhi ben aperti, Mad Men o The Wire. Va bene, diamo per scontata la morte del romanzo, la fine della letteratura e lo svuotamento del più borghese e cristallizzato tra i generi. A un patto, però. Se l’editoria, specie quella italiana, risulta infatuata di falsi romanzi non è colpa della forma-romanzo. Sì, forse non ci sono più i romanzi di una volta (come le mezze stagioni e i prati della periferia), quelle grandi narrazioni che rispecchiavano e insieme criticavano la società, ma se continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, beh, allora forse è venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri ma anche ad altre forme narrative, ad altri media. Tipo la serialità americana.

Quanto a scrittura, al romanzo si chiede di darsi per intero in ciascuno dei suoi frammenti, in ciascuna delle sue manifestazioni; sul supporto cartaceo o su quello schermico ciò che muta è il linguaggio, non la forma-romanzo. Tempo fa, Jonathan Franzen dichiarava che le serie tv «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv…».

In un celebre discorso, Milan Kundera sosteneva che il bene più prezioso della cultura europea — il suo rispetto per l’individuo, il suo rispetto per il pensiero originale — è deposto «come in uno scrigno d’argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo». Dobbiamo purtroppo prendere atto che questa saggezza non appartiene più all’Europa, da tempo si è trasferita altrove, in contrade che credono ancora ai sogni, anche a quelli culturali.

La mossa di Franzen

Quando è uscito l’ultimo romanzo di Franzen, Libertà, a proposito delle non poche polemiche suscitate dal libro, Francesco Pacifico, intervistato da Mariarosa Mancuso alla radio svizzera, ha fatto un’osservazione molto importante: Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo per vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo, la serialità televisiva di alta qualità, che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men eThe Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, e al contempo di largo consumo.

La forma-romanzo, dunque, non è morta ma migra verso nuovi e differenti media. Si tratta di un processo che possiamo osservare in tutta la sua vitalità oggi che il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento. I media si ibridano, si fondono e, insieme con loro, cambiano i modi di distribuire e consumare i contenuti. Com’è noto, si tratta del fenomeno della convergenza, che tecnicamente sta a significare l’unione di più mezzi di comunicazione, un amalgama reso possibile dalla tecnologia digitale. La convergenza non è solo un processo tecnologico, o scandito dalla tecnologia, è anche un cambiamento antropologico, un’attitudine culturale che incoraggia gli utenti a creare connessioni tra diversi testi, a usare le tecnologie sempre meno come strumenti per comunicare e sempre più come nuovi territori da scoprire, e i media non come semplici protesi, ma piuttosto come ambienti in cui siamo immersi e in cui viviamo la nostra esperienza quotidiana.

La convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali: anche quelle più consolidate e archetipiche come il romanzo si modellano e si plasmano intorno a nuovi «contenitori». La serialità televisiva, certo. Ma anche altri media presentano tracce evidenti della persistenza di un modello narrativo che trova nuova linfa in forme che non ti aspetti: per esempio, molti dei videogame più recenti e di successo sono modellati sul canonico «viaggio dell’eroe» che Joseph Campbell ha identificato come la formula narrativa alla base di molta letteratura.

L’aspetto più curioso è che molti scrittori stanno iniziando a confrontarsi con la tv, o almeno con il suo genere più «nobile». Negli Stati Uniti, il dibattito è in corso ormai da tempo. Gary Shteyngart, l’autore di uno dei romanzi più discussi e letti degli ultimi tempi in America, Super Sad True Love Story, intervistato da «The Atlantic» ha parlato del grande cambiamento che la narrativa contemporanea sta attraversando e di quanto pesi il confronto con la tv: «Canali come Hbo e Showtime stanno conquistando tutti. La tipologia di artifici narrativi che sono sempre apparsi in forma di romanzo, ora compaiono in serie come The Wire e Breaking Bad. Queste serie innescano la “spinta narrativa” che chiediamo, ci insegnano diversi mondi e diversi modi di vivere. Ma, allo stesso tempo, non richiedono un’immersione testuale totale. Siedi semplicemente lì e lasci che tutte queste cose accadano sullo schermo». Nomini brand come Hbo e Showtime e, a proposito di tendenze culturali, pensi a cosa un tempo erano Einaudi e Adelphi.

Che la contaminazione tra letteratura e serialità televisiva di qualità sia un processo innescato in modo irreversibile è ormai evidente da altri numerosi segnali: lo stesso Franzen sta lavorando a un adattamento tv de Le correzioni; una delle serie più belle degli ultimi anni, prodotta da Hbo, è Bored to Death, letteralmente «annoiati a morte» ideata e sviluppata dallo scrittore Jonathan Ames a partire da un suo racconto. Alla rivista «Link. Idee per la televisione», Ames ha spiegato: «Come romanziere sono abituato a fare il direttore della fotografia, il costumista, l’editor, persino l’Hbo: prendo tutte le decisioni da solo. A dire il vero non trovo che sia così differente dallo scrivere un romanzo. Ogni puntata, in un certo senso, è come un capitolo: non vedi ancora dove andrai di preciso con il capitolo successivo, e non sai neppure se ti sarà permesso di arrivare fino alla fine».

Insomma, tra il romanziere e la figura dello showrunner il velo di separatezza sembra essere sempre più sottile, tanto che il processo vale anche all’opposto: grandi executive producer seriali come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, Matthew Weiner e David Simon si sono guadagnati sul campo la qualifica di «autore», un tempo prerogativa esclusiva dei territori «nobili» della letteratura edel cinema. Se mai la serialità ha fatto giustizia di quella Nozione d’Autore che ha contribuito a creare non pochi equivoci, specie in Italia. Il valore della scrittura è generato da una sorta di qualità plurale che tiene a bada il narcisismo autoriale, le manie di grandezza del singolo scrittore. La serialità è un misto di creatività individuale e progetto industriale, di invenzione e ripetizione, di originalità e rimandi. Rivela nuove dinamiche della scrittura, nuovi ritmi imposti dalla produzione e nuove attenzioni al pubblico.

Da alcuni anni, da quando è apparsa una delle prime serie di culto come Star Trek, e poi da Weeds a Lost, da Bored to Death a Breaking Bad, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro. Le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano, ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo e che promettono di farci perlustrare. La sensazione è che gli strumenti narrativi dei telefilm americani lavorino per un linguaggio sciolto da ogni vincolo di obbedienza ideologica o sociale, si abbandonino al puro gusto di narrare.

Educazione sentimentale

Il dato più significativo per cogliere la persistenza della forma-romanzo e la sua rigenerazione attraverso nuove sembianze mediali è forse questo: non solo le serie tv sono ricolme di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma allo stesso tempo trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti «rubati» a modelli alti, a forme di racconto più antiche. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca. Ma è molto probabile che in alcune serie trovi orme di soluzioni linguistiche tratte da quegli autori (ben conosciuti dagli sceneggiatori). Succede, insomma, che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si formi ora sui «teen drama »: non più sul romanzo ma sul telefilm di formazione. Nelle forme espressive della serialità televisiva, la cultura americana ha trovato lo spazio ideale per dare forma di racconto a una visione del mondo, per restituire un’immagine della società dispiegata attraverso un impianto narrativo che renda ragione della sua complessità. È quello che in Italia spesso non si riesce a fare, perché il racconto del Paese è stato demandato ai generi televisivi più bassi, prigionieri di un’estetica e di una cultura che dal neorealismo in avanti (a parte poche eccezioni) ha rinunciato alla possibilità di «pensare in grande».


Aldo Grasso

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