venerdì 7 novembre 2008

NEWS - Il genere ospedaliero "made in Italy" è parafiction. Il parere di Aldo Grasso

Articolo di Aldo Grasso
Come mai la serialità italiana fatica a rappresentare il dolore e pensare la malattia? Come mai il genere più serializzato della tv americana in Italia gode di cattiva salute? Come mai i medici italiani sono così lontani dalle figure carismatiche del Dottor Kildare o di Marcus Welby, di Donald Westphall di «A cuore aperto» o del Dr House? Una prima risposta, sociologicamente confortante, potrebbe essere questa: le serie americane sono spazialmente lontane, rappresentano un mondo che non ci è familiare; quindi, possono essere vissute come favole. Il dolore continua a rappresentare una fonte perenne di spunti, di narrazioni, di allestimenti, di eroi purché resti distante. Le serie italiane, accusate persino di creare ansia e angoscia, com'è successo a «Crimini bianchi», mettono in scena un mondo con il quale non si può scherzare: ci è troppo contiguo, ne va della nostra salute. Per noi la sanità è quasi sempre sinonimo di malasanità, anche se non è vero. Quando una cosa ci riguarda da vicino, come appunto un luogo che accoglie la sofferenza, stentiamo a credere che si possa fare delle letteratura sulla nostra salute. C'è un'altra risposta, più dolorosa ma più vera. Nella sua modestia espressiva, la fiction italiana non riesce a sublimare la materia di cui parla, non riesce a trasformare una diagnosi in un'indagine sulla malattia, in una continua interrogazione drammaturgica (come in «E.R») o filosofica (come in «Dr House»). Da sempre, la serialità americana ha fatto fare un salto di qualità alla rappresentazione della medicina in tv, molto più dei programmi di divulgazione. Le sue sono lezioni di anatomia televisiva. Spetta infatti alla buona fiction conquistare la malattia con la mente per respingerla come paura. Noi siamo ancora nella difficile fase dell'imitazione, produciamo della parafiction non della fiction.
("Corriere della Sera", 03.11.2008)
NEWS - Gli ospedali italiani non sono una cosa serial. Flop per "Crimini bianchi", "Terapia d'urgenza", "Medici miei"...accanimento terapeutico o troppo ansiogeni?

Articolo di Chiara Maffioletti
Gli ospedali non piacciono. Almeno in tv. E almeno quelli italiani. Eppure l'offerta di fiction mediche prodotte in Italia non è mai stata più rigogliosa. Passando dalla commedia al dramma, si è raccontato di medici eroi e di «macellai», vagando dai reparti di neonatologia agli obitori. Una sola comune: scarsa, scarsissima fortuna in termini di ascolti. In certi casi una catastrofe. Ed è così che in breve tempo importanti investimenti sono andati persi, inesorabilmente falciati dalla mannaia dell'Auditel che ha costretto le reti (Rai e Mediaset) a caramboleschi cambi di palinsesto e a improvvise variazioni di canale e di orario. Oppure alla chiusura. In un solo mese, le fiction ospedaliere sospese sono state tre. Tutte e tre nuove produzioni. Il 24 ottobre l'ultima interruzione: «Terapia d'urgenza». «Si ritiene - spiegava la nota di Raidue - che il prodotto abbia reso molto meno delle sue potenzialità ». Che tradotto, significa otto puntate trasmesse sulle diciotto previste, con una media tra il 6 e il 7% di share, scesa al 5.83% dell'ultimo episodio.
Anna Mittone, la sceneggiatrice, ammette la débâcle: «Abbiamo cercato di discostarci dal melò-tragico stile "Capri", cercando di fare un passo verso prodotti più autoriali. Ma il pubblico adulto ama lo stile di Raiuno e quello più giovane si è raffinato». Quindi, un coraggioso mea culpa: «Siamo lontani dalla fiction americana. Poi, con la crisi, la gente è meno disposta ad incupirsi. Una signora mi ha detto: già assisto mia suocera malata, non voglio ritrovarmi in ospedale anche guardando la tv». Non ha avuto miglior sorte «Crimini bianchi». La fiction sulla malasanità prodotta da Taodue con protagonista Daniele Pecci è andata in onda a fine settembre su Canale 5. A metà ottobre era stata spostata su Italia 1. Poco dopo, definitivamente sospesa. «Il nostro era un prodotto di altissima qualità - commenta Dante Palladino, l'autore - ma non ha pagato. Questi risultati fanno riflettere: sono lo specchio di un Paese che non vuole pensare. O forse, dalla fiction ci si aspetta altro ». Fa sportivamente autocritica anche il produttore, Pietro Valsecchi: «È stato un flop pazzesco e me ne assumo le responsabilità. Ci sono stati dei problemi di comunicazione e di presunzione: eravamo troppo convinti che sarebbe stato un successo. È passato il messaggio che la fiction fosse contro i medici quando è vero il contrario. Se va tutto male, servono rassicurazioni. Bisogna tornare ad una tv di grandi sentimenti». Insomma, il teorema di Confalonieri, quello secondo cui la gente in tempo di crisi ha bisogno di prodotti ottimisti, è largamente condiviso. Ma ha una falla: neanche la sitcom funziona se ambientata in un ospedale (italiano). Di «Medici miei», fiction con Enzo Iacchetti e Giobbe Covatta e prodotta da Mediaset, sono state trasmesse solo tre puntate. Era seguito un duro scontro verbale tra Iacchetti e Tiraboschi. Passate le settimane, la rabbia di Iacchetti è immutata: «Mi spiace tantissimo perché la serie non ha avuto modo di emergere ed è stata fatta volutamente andare male. Era un tentativo di innovazione, tanto che dopo la prima puntata avevo ricevuto i complimenti da quello stesso direttore che poi, alla terza, ha detto ciò che ha detto. Mi sembra ci sia qualcosa di losco». Ma scorrendo l' elenco delle ultime serie mediche italiane, il triste copione della disfatta è tutt' altro che infrequente: «Nati ieri» è stata sospesa nel 2007 da Canale 5; «Medicina Generale», andata in onda su Raiuno a febbraio 2007, con una media vicina al 22%, fu sospesa e ritrasmessa lo scorso maggio, scendendo sotto il 17%. Nel frattempo, la criptica scelta della Rai di avviare la produzione della seconda serie. Pare lecito parlare di accanimento terapeutico. Ma non si spiega il successo duraturo delle molte serie tv mediche «d' importazione»: da «E.R.», alla 15esima edizione, a «Doctor House» alla quinta come «Grey' s Anathomy» e «Nip/Tuck». E poi ancora «Scrubs», all' ottava. Non si spiega. O forse sì?
("Corriere della Sera", 03.11.2008)

giovedì 6 novembre 2008

NEWS - "My Own Worst Enemy", il doppio ritorno di Christian Slater
Il ritorno in grande stile di Christian Slater vale doppio: in "My Own Worst Enemy" - una delle serie più attese della stagione, su NBC da metà ottobre - l'attore interpreta ben due ruoli, uno all'opposto dell'altro. La super-spia Edward, con licenza di uccidere e di parlare ben 13 lingue, nonchè il nerd da computer Henry, tutto casa e famiglia. Il problema è che sono la stessa persona! Sulle tracce di "Bourne Identity", Slater debutta da protagonista telefilmico dopo i recenti cameo in "West Wing", "Alias" e "My Name is Earl". Per sua stessa ammissione, il titolo del serial sembra cucito addosso alla sua vita: arrestato una decina di volte per violenze e abusi di droga, "c'è sempre un momento in cui ciascuno capisce che il peggior nemico è quello allo specchio". (Articolo di Leo Damerini pubblicato su "TU")

Vedi il promo di "My Own Worst Enemy"

mercoledì 5 novembre 2008

GOSSIP - Colpo di...Biel per Jessica: Rihanna avrebbe tenuto il manico dell'"umbrella" a Justin Timberlake
(AGI) - Los Angeles, 4 nov. - Tra Justin Timberlake e Rihanna c'e' "chimica". Lo rivela una fonte di 'Star magazine', sottolineando che il feeling tra i due sarebbe talmente evidente da aver fatto ingelosire la fidanzata di Timberlake, l'attrice Jessica Biel. I due cantanti, che stanno lavorando insieme a un video, sono finiti sulla bocca di tutti per una presunta attrazione reciproca e tra le foto tratte dal video, in cui sembra che Rihanna sia particolarmente sexy, e i pettegolezzi da jetset, la Biel sarebbe andata in 'tilt'. La modella-attrice e' stata recentemente protagonista al festival del cinema di Roma dove ha portato in concorso "Easy Virtue", film in cui ha dato prova di insospettate capacita' recitative, al punto da essere stata una papabile vincitrice del Marc'Aurelio come migliore attrice (poi vinto da Donatella Finocchiaro).

martedì 4 novembre 2008

NEWS - Obama Night! I telefilm tracciano il solco verso l'elezione del primo Presidente di colore

Articolo di Aldo Grasso
Un po' su Sky e un po' su Youtube, abbiamo visto il lungo spot televisivo (27 minuti) a favore di Barack Obama andato in onda a pagamento su sette grandi network nella notte di mercoledì per chiedere il voto nell' Election Day. In gergo tecnico, questo tipo di spot si chiama «infomercial» (una crasi fra l' informazione e il commercial, il messaggio pubblicitario) ed è stato realizzato da Davis Guggenheim, il regista di "Una verità scomoda" di Al Gore. Nella storia della propaganda politica, l' «Obama Biden» (questo il titolo ufficiale) rappresenta la discesa in campo dell' immaginario della serialità: è il telefilm che traccia il solco. Non solo per l' evidente riferimento a «West Wing», ma per l' uso sapiente di molte tecniche narrative prese a prestito dalle serie più famose, giusto per cucire la parte più propriamente propagandistica con l' informazione. Obama si muove e recita come i «neri» dei telefilm, non fa prediche, ma preferisce mettere in scena piccole storie, caricandole della forza dell' apologo (i mutui a rischio, la pensione, l' educazione, la precarietà del lavoro si fanno narrazione), si affida alla voce fuori campo, preferisce i discorsi privati a quelli pubblici. L' «Obama Biden» ignora la piazza, intesa come entità politica indistinta, ma interpella uno a uno i suoi possibili elettori. Solo nella retorica della serialità un leader può dire «non sono perfetto», intendendo naturalmente il contrario. Ha scritto Christian Rocca sul "Foglio": «In piedi davanti allo studio simil Casa Bianca o in cucina con una famiglia del New Mexico o tra i pensionati del Kentucky, Obama è sempre patinato, tirato a lucido, senza mai una piega, ogni tanto con un fascio di luce solare che gli sbatte sulla testa a formare un' aureola». Ma l' Obama aureolato ha un carisma che sembra raffigurato da J.J. Abrams, è come Jack di «Lost»: una guida misteriosa per uscire dalla perdizione.
(Corriere della Sera, 02.11.2008)

Vedi lo Spot di Obama:

lunedì 3 novembre 2008

NEWS - Bova Identity! Jack Bauer gli fa le pippe! Il bel Raoul nazionale in uno spy-thriller all'italiana (chi dovrà salvare dall'attacco batteriologico, la Gelmini o Brunetta?)

Articolo di Emilia Costantini
Raoul Bova: un James Bond all' italiana in una intricata vicenda di spionaggio. Per la prima volta, le trame inquietanti dei servizi segreti, quelli «sani» e anche quelli «deviati», diventano protagoniste di una fiction. «Intelligence» è l' action-movie che si sta girando in questi giorni a Roma, ma il set si sposterà poi in Romania e in Tunisia. Un kolossal da 16 milioni di euro, per esplorare il mondo delle spie, in Italia e su scenari internazionali, ponendo domande cruciali allo spettatore: qualcuno manipola le informazioni per tenerci all' oscuro di verità scomode? E ancora: quali sono le forze in campo che contrastano il terrorismo internazionale, quali sono gli eroi di questa battaglia combattuta nell' ombra? Precisa subito Bova: «Qui non sono l' eroe in senso classico. Semmai sono un uomo assetato di giustizia e di vendetta, un giustiziere vendicatore che si muove non in base a un' etica o a un' ideologia politica, ma al di fuori delle regole, accecato dalla rabbia e dalla sofferenza interiore. Un Bond più motivato, insomma, forse un eroe per caso, alla ricerca della verità, costretto a confrontarsi con un diabolico piano, destinato a sconvolgere non solo la sua vita, ma quella dell' intero pianeta». Prodotto dalla Taodue per Mediaset in 6 puntate, su Canale 5 dall' autunno 2009, è una nuova sfida televisiva con la regia di Alexis Sweet (il regista del «Capo dei capi»), dove si mescola la tradizione della fiction con i grandi film d' azione di scuola americana. Con Bova, è protagonista Ana Caterina Morariu e inoltre, tra gli altri, Irene Ferri, Massimo Venturiello, Vincent Riotta. Marco (Bova) è un ex parà che vede, o crede di vedere, la figlia morire in un tragico quanto crudele attentato terroristico. Il dolore e il rifiuto di questa morte assurda, lo portano ad arruolarsi nei servizi segreti italiani e ad entrare poi nello strisciante meccanismo del controspionaggio, in contatto con la Cia, il Kgb, la Securitate romena e altre intelligence di Paesi dell' Est. Dovrà quindi affrontare nemici e finti amici di ogni genere, in una intricata ragnatela di interessi nazionali e sovranazionali, ricatti, omicidi, ingiustizie. Riprende Bova: «Marco diventa spietato e, a un certo punto della storia, si trasforma in una cellula impazzita, che tutti vogliono fermare. Un fuggitivo che, ormai completamente solo, vive in un incubo, disposto a compromettere tutto, anche i suoi principi morali». Una corsa all' ultimo respiro, la sua, fino all' estrema impronunciabile rivelazione: un mostruoso attacco batteriologico (n.d.r.: vi ricorda qualcosa???), progettato contemporaneamente in quattro capitali europee. Nel tentare di sventare il multiplo attentato, Marco scoprirà che la figlia è ancora viva, ostaggio di terroristi. Interviene il produttore Pietro Valsecchi: «È una fiction fuori dai canoni del solito "televisionese". Un format italiano, dove una volta tanto non si vedono poliziotti o carabinieri, ma personaggi di cui noi cittadini sappiamo ben poco. Perché le cosiddette spie sono persone all' apparenza assolutamente normali, che magari si camuffano dietro un mestiere qualunque, che possono essere il vicino della porta accanto: un mondo parallelo, sotterraneo, dove perfino i "cattivi" sono in giacca e cravatta». Un format italiano, che strizza l' occhio però alla cinematografia d' Oltreoceano. Sottolinea il regista: «Sulla falsariga dei recenti 007 o di film come "The Bourne Identity" con Matt Damon, è un action-movie adrenalinico, un popcorn-movie, come si chiamano in America, per chi ama l' avventura incalzante, con scene rocambolesche che non lasciano spazio alla noia». Inseguimenti sui tetti con salti nel vuoto a 20 metri d' altezza, esplosioni, fughe spericolate in moto, combattimenti all' ultimo sangue: «In una scena - racconta Raoul - mi ritrovo attaccato al parabrezza di un' auto; in un' altra fuga, salgo e scendo le scale in motocicletta. Sul set siamo supportati da un autentico esercito di stuntmen, ma io non uso controfigure». Ci sono voluti mesi di preparazione fisica, infatti: un training intensivo in palestra per rinforzare i muscoli, con allenatori di arti marziali e con maestri d' armi, per imparare a maneggiare pistole, mitra, bombe a mano... Ma in tutta la rocambolesca vicenda, non manca la storia d' amore, quella che sboccerà tra Marco e Giada (la Morariu), avvenente spia coi tacchi a spillo: «È una donna fredda e determinata - spiega l' attrice -. Una donna-femmina, che punta tutto sull' azione, più che sull' emozione, ma alla fine anche lei si innamorerà». E la morale? Conclude Bova: «Non si traggono conclusioni o giudizi morali, ma riusciremo nell' intento se saremo in grado di far capire alla gente che dietro a una guerra o, peggio, dietro a un attentato si nascondono interessi non solo politici o di fede religiosa, ma anche e soprattutto economici. Interessi per i quali la vita umana conta ben poco».
("Corriere della Sera", 02.10.2008)

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